Suckerfish

So resistere a tutto... (Giuseppe)

“So resistere a tutto, tranne che alle tentazioni” diceva Oscar Wilde.

Se le tentazioni richiedono di valutare l’opportunità di resistervi, è perché evocano un rischio, implicano una qualche temibile conseguenza che vorremmo scongiurare.

Il dilemma mi si pose poco dopo avere accettato, non senza esitazione, l’incarico di responsabile culturale di un club (di universitari e professionisti, con acronimo CUP) che sul finire degli anni ‘70 era parecchio attivo a Misterbianco, un piccolo paese vicino Catania.

Io ero allora studente del penultimo anno di medicina, con una già lunga, ma ahimè – a considerarla oggi – ancora breve, carriera di balbuzie alle spalle.

Per una serie di fortunate coincidenze, in questa mia inedita veste ebbi l’opportunità di organizzare un incontro di poesia che ritenevo di grande interesse.

Dicevo del dilemma. Già, perché la tentazione di tenere il discorso d’apertura di quella manifestazione (che per forza di cose sarebbe toccato a me) era troppo grande, ma la paura di fare la “figura del balbuziente”, con la sicura complicità di qualche stupido microfono pronto ad amplificare anche le mie più piccole difficoltà, lo era altrettanto.

Avrei chiesto aiuto al mio amico Alfredo; lui era un po’ più grande di me e spigliato abbastanza per cavarsela con i microfoni e con sguardi attenti del pubblico.

La sua risposta mi colpì con violenza: non avrebbe avuto nessuna difficoltà a sostituirmi quel giorno; bastava solo che gli preparassi il discorso da leggere!

In un attimo mi rividi in una delle scene peggio riuscite della mia vita: quella di un recente esame d’università in cui un tranquillo professore di farmacologia, per nulla sfiorato dal sospetto di infliggermi una crudele ed ingiustificata angheria, leggeva a voce alta a tutta l’aula quello che poco prima mi aveva chiesto di scrivere in risposta alle sue domande e che non aveva avuto il tempo o la pazienza di lasciarmi dire. Il mio essere “diverso” acquistava così una certificazione ufficiale, direi cattedratica. Schiacciato in quella sedia dal peso della umiliazione, rosso di vergogna, suonato come un pugile all’ennesimo conteggio, speravo solo in un malore, in un terremoto, in un qualsiasi evento, insomma, capace di metter fine a quella insopportabile tortura.

Dalla risposta del mio amico – ingenua e feroce allo stesso tempo – la tentazione prese quindi un inaspettato, indiretto vigore; la paura non poteva davvero spingermi fino al punto d’accettare la riedizione della miserabile scena degli esami. E mi preparai alla battaglia.

Scrissi per benino tutto quello che pensavo di dire, dai saluti, al significato della manifestazione, ai ringraziamenti; tutto, fin nei più minuti particolari, consapevole che leggere senza improvvisare, senza mai parlare a braccio, sarebbe stata la soluzione vincente.

Lessi e rilessi il mio discorsetto fino alla nausea, lo declamai fino al punto da saperlo ripetere a memoria.

L’ex cinema Mazzini me lo ricordo ancora come uno dei luoghi più freddi della terra. Per sopravvivere alla proiezione dei film vi si stava trincerati fra i sedili di legno, stretti gli uni agli altri e con addosso il cappotto. Si sentiva freddo anche quella domenica mattina di tarda primavera, quando iniziò finalmente la manifestazione.

Venne presto il mio momento. Salii sul palco quasi con gli occhi chiusi e con il cuore che sembrava volesse uscirmi dal petto; ebbi solo il tempo di capire cosa prova il paracadutista al suo primo lancio, e cominciai.

Non fu una passeggiata, ma scivolando da una frase all’altra, saltando in punta i piedi come in un campo minato fra spigolose consonanti e acidi dittonghi, sostituendo all’ultimo secondo quelle parole che mi facevano stare con il fiato sospeso, giunsi fino alla fine, in tempo per godermi il tepore di un timido applauso.

Ero salvo, la vita poteva continuare a scorrere. Presi posto in sala, sotto il palco, così orgoglioso per quanto avevo fatto, che il mio pubblico balbettio – cosa strana – non mi ferì assolutamente, anzi, mi sembrò rendesse più bella e più degna quella impresa.

Vale la pena di raccontare come andò a finire.

Non volendo esagerare o cadere nella retorica, avevo annunciato al nutrito uditorio che si era radunato in quella sala, che avevamo di fronte uno dei più importanti poeti della Sicilia.

Lui, Ignazio Buttitta, mi riprese appena cominciò a parlare. Spiegò a noi tutti che non era affatto il più importante poeta siciliano: lui era il più grande poeta popolare di tutto il mondo. E non solo ce lo spiegò, ma soprattutto ce lo dimostrò. Per quei pochi che rimasero fino alla fine, fu una esperienza memorabile. Quel vecchio mise fuori una energia insospettabile e travolgente; con le sue parole, irruvidite dal fumo ma musicali come il dialetto del palermitano prescrive, scaldò la gelida atmosfera di quell’immenso magazzino; ci ricordò la Sicilia degli anni della fame, del buio periodo fascista, del dopoguerra, delle lotte contadine; ma ci parlò anche dell’amore, delle debolezze e della dignità degli uomini. Ognuno ebbe almeno un motivo per lasciarsi sfuggire una lacrima.

Ma, ahimè, a mano che cresceva dentro di me l’ammirazione per il poeta, lo stillicidio delle persone che indignate lasciavano la sala si trasformava in franca emorragia. Vedevo nei volti degli associati di quel circolo, che pure si richiamava alla cultura, gli inequivocabili segnali di una forte disapprovazione e la promessa di una prossima, sommaria vendetta. Prevenendo ogni mossa, scrissi l’indomani una lettera di dimissioni, in cui, per nulla pentito della mia iniziativa, denunciavo i limiti di quel sodalizio, che coltivando il motto del “qui non si fa politica”, lo portava alle estreme e più ottuse conseguenze.

Questo era il clima degli anni della mia giovinezza. Provincialismo e bigotteria erano di casa nel mio paese e quel circolo non vi sfuggiva.

Anche se per certi versi la conclusione della vicenda fu piuttosto amara, per altri ha rappresentato un momento straordinario e fortunato della mia vita. Prima di tutto perché mi fu possibile ascoltare, toccare, abbracciare, baciare Ignazio Buttitta, forte e sensibile poeta dell’umanità che non si arrende.
Poi perché quella prova d’orgoglio, quel cedere alla tentazione superando le paure, fu probabilmente il primo passo di un non facile e non ancora del tutto concluso cammino che mi ha portato ad elaborare una consapevolezza che voglio trasmettere ai miei amici balbuzienti.

Non sempre balbuzie vuol dire vergogna e pena, anzi!

Manifestare se stessi, evitare le rinunce, far sentire la propria voce malgrado tutto è un esercizio di forza e di carattere che accresce la fiducia e la stima in noi stessi e che viene enormemente apprezzato da chi ci ascolta.

Riconoscere con onestà la propria condizione di balbuzienti e farla intendere chiaramente agli altri, senza far nulla per nasconderla, dà una tranquillità, una forza, un orgoglio che nessun camuffamento, nessun nascondimento potrà mai garantire; paradossalmente riconoscere di essere balbuzienti è il presupposto per esserlo di meno.

Un vecchio adagio delle mie parti afferma: meglio una volta arrossire che cento volte impallidire; applicandolo alla balbuzie si può rendere così: meglio dichiararsi subito, anche se ciò comporta un piccolo sforzo, anche se bisogna arrossire un po’, piuttosto che nascondersi o fingere di essere chi non siamo e impallidire tutte le volte che ci scoprono.

Nessuna umiliazione è superiore a quella di rinunciare ad esprimere ciò che abbiamo dentro. Nessuna gioia è superiore a quella di essere se stessi.

Questo ho capito, fin’ora.
 

Giuseppe Di Guardo, Sant’Agata li Battiati (CT)