Suckerfish

Quando si arriva alla tragedia

“Per dovere di cronaca” – direbbe qualche giornalista – riportiamo anche due notizie apparse negli anni scorsi sui giornali: due giovani che si sono suicidati [1] e [2]. Abbiamo poi conosciuto personalmente altri due ragazzi che ad un certo punto hanno deciso di gettare la spugna: non ce la facevano più a lottare contro l’indifferenza, la solitudine, uno dei due contro chi gli aveva venduto a caro prezzo l’illusione di una facile e duratura “guarigione”. Anche queste sono soltanto delle eccezioni, sia chiaro: ma quanti, pur non arrivando a procurarsi una morte fisica, si danno pur sempre una lenta – e non per questo meno dolorosa – morte sociale?

Trascriviamo anche un’e-mail, omettendo come sempre ogni riferimento personale, per far capire a chi non ha vissuto il problema quanto può far soffrire questo nostro disturbo così, subdolo, così strisciante:

«Ho pianto, pianto, pianto. Ho trovato il vostro sito internet quasi per caso... e più leggevo, più piangevo. Non ho mai parlato volentieri di balbuzie, neanche adesso che il periodo peggiore è passato. Avevo quasi dimenticato tutto il dolore, l’umiliazione, l’impossibilità di sentirsi uguali agli altri. Avevo nascosto tutto anche a me stesso; o forse, più semplicemente, queste cose fanno ormai parte del mio carattere, e non mi chiedo più il perché preferisco le strade in ombra, il perché non ho mai amato essere al centro "della pista da ballo", ed il perché di altre mille cose vissute con un meccanismo interno che scientificamente e inesorabilmente mi autoescludeva da tutto. A cominciare chiaramente dalla vita sentimentale. Non credo esista un periodo nella vita in cui la capacità di soffrire è maggiore che nell’adolescenza. La paura di non trovare una propria strada, la paura di non poter fare ciò che ci si sente in grado di fare. Una adolescenza nella quale non ho saputo piangere, né parlare di questo problema... solo rabbia, tristezza, umiliazione che hanno prodotto insicurezze, sogni e nostalgia. Come può una persona “normale” capire il dolore di dover fare la fila al bar e ordinare un cappuccino, il dolore di entrare in un qualsiasi negozio e chiedere qualcosa, il dolore di chiamare un cameriere al ristorante per chiedere il conto, il dolore di dover chiedere una informazione per strada, di chiedere anche solo dov’è il gabinetto? E non parlo neanche di cosa vuole dire non poter avere l’interlocutore fisicamente davanti, ma di sentire solo la sua voce... il dolore di suonare al citofono o di telefonare... A scuola, con gli amici, in vacanza, in famiglia... quanti discorsi mai cominciati, telefonate mai fatte. Come può una persona normale capire che la strada che si prende è quella di non prendere nessuna strada? Ricordo quando telefonavo ad Andrea, un mio amico, e rispondeva la sorella alla cornetta, lei riconosceva subito le mie consonanti strozzate con le quali cercavo di iniziare il discorso... dopo cinque dieci secondi di silenzio, mi diceva imbarazzata "ti passo Andrea"... Come ci si può sentire uguali agli altri? Un continuo stato di disagio con le persone che mi volevano bene, e di paura con le persone che non mi conoscevano. Ancora adesso cerco sempre di entrare nei negozi per ultimo, di aspettare che siano vuoti o che ci sia poca fila... Ancora oggi mi capita che quando mi chiedono come mi chiamo rimango impalato, con il mio cavolo di nome che comincia per "S"... Solo al secondo anno di Università ho avuto il coraggio di chiedere a mia mamma di trovarmi qualcuno che mi potesse aiutare. Sono andato per un anno da una logopedista e da una psicologa. È stato solo un anno, ma è bastato per iniziare ad abbattere parte del recinto dentro il quale mi ero rinchiuso. Recinto che ormai è parte integrante di me, con la mia paura di non poter mostrare al mondo quanto io valga, con la paura, di fondo di non poter essere amato. Nel passato non sono mai riuscito a guardare negli occhi un balbuziente, sempre cosí uguale ma sempre cosí diverso da me, uno specchio terribile: la Pietà che provavo per lui che era quella che gli altri provavano per me. Oggi quando ne incontro uno, o quando mi accorgo (sempre immediatamente) di chi è ex-balbuziente, non riesco a parlarne... è come se si innescasse dentro di me una tacita e dolorosa sintonia. Fra una settimana, dopo un lungo periodo di lavoro, torno a casa, nella Città in cui sono nato e cresciuto. Mi piacerebbe tantissimo potervi incontrare, vorrei veramente poter fare qualcosa insieme. Per aiutare me a sciogliere i nodi del passato, e per aiutare chi è in difficoltà a trovare un proprio equilibrio, una propria strada. Grazie di avermi fatto piangere, a presto.
[lettera firmata]»

Questa persona ci ha scritto nel marzo del ‘99, dandoci il suo indirizzo e il suo numero telefonico. Gli abbiamo spedito del materiale informativo che è giunto a destinazione non essendo tornato indietro. Non ne abbiamo saputo più niente. Evidentemente avrà avuto buoni motivi per rimanere chiuso in quel suo “recinto”...

Ma noi abbiamo bisogno di persone che escano allo scoperto e che ci aiutino a portare avanti il nostro messaggio.